martedì 22 agosto 2023

ROMA @ RAVE IN ITALY (2018)

contributo @ RAVE IN ITALY 

gli anni novanta raccontati dai protagonisti 

curato da Pablito el Drito 

pubblicato da Agenzia X 2018

pubblicato su Not Nero Edizioni 2018





ROMA

di Anna Bolena


Sono sempre stata appassionata di musica. Mia madre suonava il pianoforte e insegnava musica nelle scuole primarie, sono cresciuta in una casa in cui c’erano dischi sia di cassica che di altri generi. Alla fine degli anni ottanta, venendo dalla scena post punk, avevo una idiosincrasia nei confronti della musica elettronica da ballo, che consideravo di cattivo gusto e superficiale. Era un mio pregiudizio, una chiusura mentale che negli anni ho poi superato. Anche perché poi un genere musicale va studiato, approfondito, vissuto e compreso. Quando mi sono ritrovata a Roma nella scena di movimento, la musica principale che girava era il punk e il rap. Era musica di protesta, la colonna sonora di parole d’ordine e contenuti politici che caratterizzavano quel periodo storico. Io ho militato nel movimento studentesco de LA PANTERA all’Università della Sapienza, poi sono entrata in contatto sia coi centri sociali, con le radio di movimento, l` Autonomia Operaia, i comitati di quartiere, le sedi politiche, per poi militare nel circuito anarchico e entrare a far parte del collettivo CONTROCULTURA al Pigneto.  In quel periodo i fascisti avevano iniziato a riaprire luoghi di aggregazione in diversi quartieri, non solo quelli storici di appartenenza. Era una situazione anche pericolosa, ci sono stati scontri anche fisici durante gli attacchinaggi notturni.

La musica elettronica era considerata dai compagni musica commerciale, anche perché era ballata principalmente nel circuito delle discoteche.

Quando noi abbiamo cominciato a suonare e organizzare rave, la musica che mettevamo era quella che compravamo da Remix, un negozio romano che è stato fondamentale per diffondere techno/electro e musica sperimentale come l` IDM.

Il movimento dei rave illegali e` iniziato nel 1993/1994 grazie a un gruppo di musicisti e compagni stanchi della solita musica dentro i consueti luoghi di aggregazione sociale della sinistra extraparlamentare. Alcuni di noi componevano gia` musica da ballo e non solo con apparecchiature elettroniche. Musica acida più in sintonia con il mood di queste prime feste, che si svolgevano in periferia. 

La musica, al tempo, rappresentava solo uno degli aspetti del movimento anche se per me è diventata sempre più preponderante. Al’inizio l’occupazione deglli spazi periferici aveva un aspetto prettamente politico. Si andavano a prendere gli spazi delle città lontani dalle solite organizzazioni, sia da quelle commerciali, sia dagli spazi sociali. Anche perché nei centri sociali c’erano delle restrizioni di tipo estetico, culturale, musicale. E anche dei pregiudizi. 

Io sono sempre stata una persona molto curiosa e aperta, che ama trasgredire. Mi ero resa conto che la musica elettronica aveva una valenza culturale. Basta pensare alla tradizione inglese o a quella americana. Poi, ascoltando la scuola romana, mi sono definitivamente innamorata di quel suono. Continuo a ritenere che la scuola romana sia quella che mi ha formata, tanto che il suono di Roma sia quello che si continua a sentire anche nelle mie produzioni attuali. L’utilizzo della musica techno aveva una sua funzione: riportare un po’ di novita` e creativita` (come momento di rottura dal consueto suono "sociale") dentro il discorso dell` autogestione e del controllo del territorio all’interno delle situazioni politiche. La nostra aspirazione era quella di strappare al “muretto fascista” il ragazzo di periferia, indottrinato alla cultura dell`intolleranza e della violenza, che era attratto da questo  tipo di musica. Mi ricordo che all’inizio del movimento dei rave illegali arrivava gente coi bomber e scudetti, che apparteneva a questo tipo di comunità di periferia, cresciuti a techno e saluti romani. La nostra sfida è stata quela di presentare a questi ragazzi un’alternativa alla discoteca commerciale mostrando direttamente su campo come si organizza dal basso un party di musica elettronica da ballo.

Io ero in contatto con alcuni musicisti / dj che stavano dentro il Forte Prenestino e al centro sociale Pirateria. Mi sono ritrovata a fare con loro un paio di feste nei centri sociali e qualcuna in periferia. 

Nella periferia est di Roma ho cominciato a ballare la techno. Lì ho cominciato a studiare generi e sottogeneri: electro, trance, hardcore, e ovviamente techno. La scena romana produceva techno sperimentale. Penso a Lory D, Leo Anibaldi. Poi c’era la scena “detroitiana”, legata al nome di Andrea Benedetti e Marco Passarani. Leo Anibaldi, giovanissimo,  già lavorava a livello internazionale e produceva dischi. C’erano anche i gemelli d’Arcangelo, che hanno influenzato il mio suono industriale. Tuttavia io amavo anche molto la scuola inglese IDM: Aphex Twin, Squarepusher, etc… La trance, nonostante il grosso della produzione fosse stata nel 1992-93, andava ancora forte in città. Alcuni suonavano goa, di cui non sono mai stata una grande appassionata. La presenza variegata e variopinta della musica è un aspetto molto bello degli anni novanta, un aspetto che secondo me negli anni si è andato perdendo. Si è sempre più asciugato in categorie tipo techno e house. Addirittura c’è gente che ancora pensa che l‘electro non faccia parte dela techno! Negli anni novanta ci interessava poco definire il genere, ci intrigava di più la dimensione alternativa della riappropriazione degi spazi e della produzione musicale. Che poi è un movimento  parallelo di integrazione a quello che era l’eredità culturale e politica dei centri sociali. Era un’esigenza di portare freschezza, quindi anche il fatto di usare la techno come veicolo per aggregare persone è stato un aspetto fondamentale. Questo avviene dopo quella fase di rave commerciali fatti in discoteca nei primi anni novanta. Io in discoteca ci sono andata a sentire la musica dark, a Roma frequentavo il Uonna. 

Quando ho incominciato a comprare dischi di elettronica mi sono appassionata a due generi: industrial e idm. Ho comprato anche robe più dancefloor, trance a 150-160 bpm e anche acid techno. L’acid techno è una cosa che ogni tanto ritorna di moda: il bassline usato in maniera esagerata esiste da sempre e non morirà mai. La musica acid dal mio punto di vista è musica più facile. L’acid di Leo Anibaldi rimane anche un prototipo del genere. Che però, a differenza di altri prototipi di quel genere, mantiene sempre quell’eleganza e ricercatezza che solo Leo ha saputo esprimere. 

Un cosa positiva della scena romana è stata che dopo i primi due anni di rave illegali, che possiamo collocare nel biennio 1995-1996, è nata l’esperienza della Fintek. Questa ha coinvolto tante persone. La Fintek è stato un rave illegale continuato, che durava 3-4 giorni a settimana. L‘occupazione è durata un paio d’anni. Alla Fintek per la prima volta si sono riusciti a portare artisti importanti come Panacea, che noi adoravamo all’epoca. La drum’n bass che faceva, che poi è stata definita darkstep, è una cosa di cui ci siamo appassionati subito. Quando è venuto a suonare in una delle salette per la prima volta eravamo solo una ventina di persone. Anzi, forse diciannove! Quando tornò al Forte Prenestino in compenso lo attesero le folle. Vero è che lì era già diventato famoso. Position Chrome è una delle etichette fondamentali del genere. Altre persone che hanno cambiato la mia conoscenza della musica sono stati Christoph Fringeli della Praxis,  Rachael Kozak della Zhark e Dan Hekate. Hanno portato una grande freschezza nella scena. La Praxis la conoscevo già, o meglio, conoscevo già le produzioni. Avere incontrato Christoph e soci della Praxis è stata una cosa fondamentale, perché poi abbiamo fatto anche cose insieme. 

Per me Praxis è tuttora una delle etichette più importanti. Il suono è molto radicale, va dalla breakcore passando per il noise fino all’hardcore, però con venature molto sperimentali, molto ricercate. Sono dischi che vanno calibrati. All’epoca li suonavamo parecchio perché eravamo rimasti in fissa! Li prediligevamo perché avendo come base la cassa spezzata lo usavamo per contrastare la noia del 4/4 alla Spiral Tribe. Lo dico con tutto rispetto per loro, abbiamo pure organizzato cose insieme, ma il loro suono mi ha sempre appassionato poco. 

Mi attraeva tutto ciò che si contrapponeva alla ripetizione noiosa e lo suonavo.

Si creò una contrapposizione tra chi suonava la cassa dritta e chi quella spezzata. Cosa che a me irritava pure, perché a me piaceva suonare sia una cosa che l’altra. Certo, tra un suono che abbraccia un consenso maggioritario e uno che abbraccia un consenso minoritario, io mi schiero con quest’ultimo. 

Il periodo della Fintek è stato molto interessante e vivace. Anche molto sociale. Il fatto di avere un posto fisso dove poter fare party è stato estremamente importante. Un po’ ha dettato delle regole e poi ha rappresentato quello che poi succede in tutti i movimenti. Non dico che si sia trattato di “imborghesimento”, ma sicuramente un rendere la cosa forse un po’ più noisa e meno ricca di sorprese. Le persone che arrivavano alla Fintek erano le stesse persone che venivano nei rave “mordi e fuggi” dei due anni precedenti, cui si sono poi aggiunte altre persone. Noi siamo arrivati ad organizzare rave fino a seimila persone, e la Fintek aveva più o meno gli stessi numeri. Però mentre negli illegali classici si organizzava il sabato e poi la domenica si andava via, con la Fintek si iniziava il venerdì, a volte anche il giovedì. E c’è stato un afflusso di gente da tutto il mondo. La gente che veniva era di tutti i tipi, non era gente necessariamente politicizzata. Dentro la fabbrica ci vivevano, con grosse difficoltà molte perone. Il posto fu preso in origine da un gruppo di amici di Sasha, un dj inglese, che era morto in India. Per ricordare Sasha gli amici fecero una prima festa nella fabbrica dismessa della Fintek. Doveva essere un evento singolo, divenne poi un’occupazione stabile. Quest’occupazione ha portato al mescolamento di persone di vario genere, tra cui alcuni traveller legati alla scena degli Spiral Tribe, dei Kamikaze e degli OQP, insieme ad una seri di musicisti sia della scuola romana, che dela scuola internazionale. 

Io frequantavo la Fintek ogni fine settimana, avevo lì una sorta di residenza. Ci suonavo spesso. 

Appartenevo a un gruppo, quello della rivista “Peti nudi”. Stiamo parlando del 1997-1998. La rivista è nata quando ci fu questo grosso evento per Sasha, e di conseguenza uscì il primo foglio, che mi comparve come un’apparizione notturna. In questo foglio c’erano dei riferimenti sia a Sasha che alla scena romana. Erano interventi provocatori, incorniciati in maniera irrivente dal grafico Matteo Swaitz. Noi di “Peti nudi” abbiamo portato il dark nella scena. Per noi nelle feste c’era un approccio troppo colorato e fricchettone, che a noi non piaceva. Quindi abbiamo tematizzato i contenuti musicali e estetici, in modalita` esoterica, in chiave loggia massonica. Ma era un modo per divertirci, per prendersi in giro. Da lì “Peti nudi” è uscito in varie edizioni, non tantissime. Non era facile farlo, perché la maggior parte della fanzine la scrivevo io. C’era qualche altro sparuto intervento, ma principalmente i testi erano farina del mio sacco, combinati con le foto di Stefania e la grafica di Matteo. La nostra presenza alla Fintek ha portato ricchezza culturale. All’interno della Fintek si era creata una socialità anche drammatica a volte. Alcuni sviluppavano atteggiamenti psicotici, perché si faceva una vita durissima. Qualcuno ha iniziato ad avere dei problemi sociali e comunitari, che sono sfociati in litigi anche molto pesanti. Qualcuno è anche morto là dentro. Però penso che con la partecipazione di 5-6000 persone, anche le morti siano cose normali. In tutti i fenomeni giovanili qualche morto c’è sempre scappato…  Non è facile mettere tutto in sicurezza. Ci siamo improvvisati su molte cose, non solo in consolle.

Discorso stati alterati di coscenza e incoscenza: le droghe giravano. C’era di tutto e di più, con il tabù della cocaina e dell’eroina, che comunque c’erano. Il tabù era un detto, ma non un fatto. Non stupisce che molta gente sia finita nell’abuso, ma questo sarebbe superfluo raccontarlo. La Fintek ad un certo punto è diventata un grosso luogo di spaccio, creando grossi problemi. Sia a livello di salute di chi ci abitava, sia a livello di controllo sociale. Le droghe arrivavano principalmente da fuori, anche se qualche laboratorio nella zona tra Roma e Napoli avrà dato certamente il suo contributo. Però le droghe di fattura superiore venivano dall’ Olanda, dall’India via Londra, qualcosa arrivava pure dalla Francia. In questo eravamo molto internazionali non c’è che dire. 

Se un posto è fermo gli apparati della sicurezza e del controllo sociale sanno che sei lì e quindi forse non ti rompono le scatole. Però per chi sta lì fermo tutto questo comporta un adagiamento. Qualcuno un po’ meno sveglio, che stava in un periodo di fragiità ha subito questa cosa… Le polemiche e le critiche sula Fintek sono state tante, ma prima di arrivare alla scritta “Fintek rave di stato” nei pressi dell’entrata, io avevo scritto un pamphlet sul fatto che il rave illegale era morto. Per me era finito nel 1996. Quando abbiamo iniziato ad avere un pubblico di seimila persone non c’era più niente dell’illegale originario. Si raccoglievano tante persone che facevano già un utilizzo smodatissimo di sostanze, dove anche l’elemento musicale iniziava a perdere d’efficacia. C’è stata come una liberalizzazione di tante cose, ma che poi liberate non erano!

Ad esempio una cosa che non si è mai discussa è la questione del gender, l’aspetto della relazione tra uomini e donne. Io per molto tempo sono stata l’unica dj donna all’interno del nostro gruppo. Adesso le cose stanno cambiando e sono cambiate. Alla Fintek la “manovalanza” organizzativa e di consolle era quasi tutta maschile. Le donne, quando c’erano, davano una mano al bar o in altre funzioni. Io però ero quella che organizzava le consolle. Ho sempre avuto molto rispetto forse anche perché ero l’organizzatrice. Poi alcune altre ragazze hanno iniziato a suonare, ma dopo di me. Però c’è stato un lungo periodo in cui ero l’unica donna a maneggiare dischi.  

Il rave ad una certo punto l’abbiamo pure portato al centro sociale. E quindi siamo ritornati da dove eravamo partiti! All’inizio l‘”intellighentia” del centro sociale era contraria, i compagni più grandi erano molto scettici. Soprattutto quelli che venivano dagli anni settanta/ottanta. Non capivano questa cultura, oppure intravedevano una china pericolosa. Secondo me erano dei conservatori che non avevano voglia di affrontare una generazione meno politicizzata della loro. Cosa che avrebbe richiesto comunque un grosso sforzo. Questa cosa è stata portata avanti dalla mia generazione, quella di mezzo. Noi avevamo voglia di confrontarci col nuovo.  

C’è anche un’altra questione che lega centri sociali e rave: le stesse droghe che giravano ai rave giravano nei centri sociali. È normale che ci fosse un collegamento tra le due scene. Perchè se all’inizio c’erano tensioni con la vecchia generazione, la nuova generazione invece voleva fare parte del movimento rave. Alcuni dei dj venivano dai centri sociali. Anche se io non ho mai fatto parte di nessun collettivo dei centri sociali, c’è stato un tentativo di portare dentro gente come me. Perchè noi eravamo il nuovo che avanzava. Loro avevano bisogno di gente come noi da strumentalizzare. Ma per me il centro sociale era un ghetto. 

Anche a Radio Onda Rossa, la radio del movimento romano, c’era chi era contro la cultura rave.Però c’è da dire che il primissimo movimento rave romano è stato caratterizzato dalla presenza anche radiofonica di “Hard raptus”, che era una trasmissione techno. Altre radio erano pronte a seguire. Ma Radio Onda Rossa era la radio che stava nel territorio sociale e politico, con un collettivo che controllava la tematiche. All’inizio degi anni novanta su una radio commerciale c’era pure il Virus di Freddy K, che è stato fondamentale per sdoganare la techno. Però stiamo parlando di un circuito che era quelo bottegaio delle discoteche. 

Nel 1999, quasi al volgere del nuovo millennio, ho fondato Idroscalo Dischi.  È stata la mia risposta alla fine del rave. Ho voluto spingere le mie energie organizzative verso la produzione musicale. Ho pensato che la musica dovesse essere la risposta a questo riflusso, al controllo sociale, alla caduta nell’abuso di sostanze. Una controffensiva all’approccio consumistico in chiave antiborghese. La musica è quella che mi ha salvato da sempre: sono nata con la musica e continuo a farla.

Anna Bolena è nata in Sardegna, trapiantata a Roma, vive per intero la scena rave della capitale, di cui è una delle organizzatrici e una delle poche dj donne. Nel 1999 fonda Idroscalo Dischi, etichetta indipendente dedicata al suono elettronico di matrice industriale. Vive a Berlino dove prosegue la sua carriera di dj e produttrice.


words © ANTONELLA PINTUS pic Paola Verde

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